È impossibile spiegare le ragioni che spingono al gioco – diceva Freud – senza considerare il piacere che da esso deriva.


I libri di Scuola non lo scrivono, ma c’erano anche i bambini durante le rivoluzioni sociali, il Romanticismo, la nascita del Cinema, le guerre mondiali, i viaggi sulla luna… e giocavano.
L’analfabetismo, lo sfruttamento minorile, le ruote degli esposti sono concetti che si riassumono nei termini di “piaghe sociali” e si traducono in dati percentuali; dietro quei numeri c’erano vite fragili eppure risolute a vivere e a giocare.


Storie raccontate in ogni sfumatura attraverso le migliaia di antichi balocchi esposti al Museo del Giocattolo e del Bambino, nelle sedi di Firenze e Santo Stefano Lodigiano, dove tre secoli di umane avventure sono testimoniate da bambole e trenini, robot e soldatini, marionette e macchinine…


I giocattoli non sono mai fini a sè stessi; sono testimoni precisi e puntuali (a volte impietosi), dei percorsi che hanno attraversato: un punto di vista inedito e privilegiato che offre mille spunti di riflessione.
Le rispondenze tra questi oggetti e l’ambiente storico abbracciano le arti e le scienze; dai primi riconoscimenti delle proprietà educative insite nell’attività ludica, attraverso l’evoluzione dell’artigianato in industria, gli sviluppi applicati a produzioni, meccanismi e materiali, i fermenti culturali, i climi politico/militari, via via fino ai dinamismi propagandistici, seriali e consumistici.


Tuttavia, i balocchi non rinunciano MAI ad esprimere proprie caratteristiche “istituzionali” come l’ironia e la fantasia. La prima si incarna in un umorismo ora sferzante ed allegorico ora innocente e sdrammatizzante; la seconda irrompe in una carica immaginifica e stimolante che varca ogni confine, perfino anticipando importanti traguardi tecnologici.


…E che cos’è la Tecnologia se non una forma di Fantasia?


Giocare è quanto di più istintivo esista al mondo; il tempo, sociale ed individuale, può cambiare i giocattoli, non il desiderio di giocare.
I bambini hanno sempre giocato… o quantomeno hanno sempre cercato di giocare: Lasciare un bambino da solo con sè stesso – la citazione stavolta è da Hegel – significa vederlo giocare entro pochi istanti.
Osservando i reperti, spesso esemplari unici, esposti al Museo, sembra di scorgere le linee evolutive che hanno tramandato gli archetipi ludici: questi, trasformati nelle forme e nelle dinamiche, hanno mantenuto inalterata la sostanza. Le idee buone, le idee forti, sopravvivono sempre.


Del resto, l’ Homo era Ludens ben prima di essere promosso Sapiens.

A cambiare non sono allora tanto i giocattoli ma i “modi” di giocare: i modi in cui un adulto costruiva o regalava un balocco al proprio bimbo, i modi in cui le contrastanti ideologie cercavano di interpretare (a volte sfruttare) la spiritualità mitopoietica propria del binomio bambino-giocattolo, i modi in cui il fanciullo stesso interagiva con l’oggetto.


Prima dell’Illuminismo non esisteva una Storia del Giocattolo; l’attività ludica, considerata l’esatto opposto di quella lavorativa, era sopportata quando non bandita. I bambini dovevano allora ritagliarsi un proprio spazio di sogno inventando da sè i propri giochi: con l’immaginazione (la potenza simbolica del “facciamo finta che… facciamo che io ero…”), e con l’ingegnosità (costruendoli con le proprie mani, sviluppando manualità e creatività).


In un tale contesto, il Giocattolo non era certo un oggetto da consumare; era un amico cui voler bene, cui raccontare storie, cui confidare i segreti. Anche quando, successivamente (un processo invero assai lungo e faticoso), i bambini cominciarono a ricevere balocchi in regalo, erano comunque loro stessi a plasmare gli universi di gioco in cui avventurare pupazzi e modellini.


Che cosa è cambiato allora nel giocare? Innanzi tutto le finalità educative.
Come è vero che i giocattoli si sono sempre allineati agli sforzi di genitori ed educatori nel merito dei “valori” da trasmettere, è anche vero che un tempo i valori si chiamavano: Pazienza, Riflessività, Manualità, Onore. Oggigiorno, quei complessi universi chiamati “Scuola” e “Lavoro” pretendono piuttosto Iperdinamismo, Professionalità, Competizione, Furbizia…
Da qui le prime inevitabili metamorfosi.


Poi bisogna considerare l’interazione. Pur con la loro ingenua semplicità, i giochi di una volta, i materiali di quei giochi, si prestavano ad essere reinventati dal fruitore. Il fatto è che l’oggetto in sè non ha mai significato molto per il bambino: pochi centimetri di legno o cartapesta, ceramica o metallo. Ciò che DAVVERO conta è il racconto che egli ne trae, stimolato dall’oggetto a leggere (e al contempo scrivere) in quel grande libro di fiabe che la sua mente custodisce.


E’ un momento importante. Il momento in cui l’oggetto si trasforma in Giocattolo; è il bambino stesso a dignificarlo con tale magica parola.


Il Museo non ha assolutamente lo scopo di screditare la ludicità contemporanea. Ogni bambino deve giocare con i giocattoli del proprio tempo, quei giocattoli che lo aiuteranno a confermare, pur in chiave fantastica, le dinamiche della sua realtà.


Le nostalgie si addicono ai “grandi”, così come le superficiali e sbiadite speculazioni sui cosiddetti “giochi violenti” (il giocattolo, in quanto inanimato, è privo di intenzionalità diretta, non può essere violento in sè; violento può essere, eventualmente, il contesto di gioco …e in questi casi il contesto è invariabilmente indotto dall’adulto), così come le gerontologiche attribuzioni di ruolo (p.e. la demarcazione fra i pretesi giochi adatti ai maschi o alle femmine): diatribe da salotto o da talk-show; guai a scaricarle sui bambini.

Tuttavia è impossibile non notare come, spesso, i giochi di oggi tendano ad imporsi ai bambini, costringendoli al rispetto di regole e scenari prefissati: è la differenza fra bambino che gioca e bambino che viene fatto giocare. Una differenza fondamentale.


I giocattoli sono il tramite dell’Io infantile con l’esterno ed è importante che siano adeguati alle esigenze. Sarebbe bello se i bambini, protetti dalle fuorvianti strumentalizzazioni commerciali, potessero scegliere davvero liberamente i propri giocattoli; non è così. Hanno bisogno di un aiuto (un aiuto NON interessato…).


Genitori ed educatori sono oggi chiamati a “supervisionare”, a filtrare tra le migliaia di offerte insistenti e magniloquenti, talvolta scellerate, che si contendono le pagine ed i palinsesti.
A volte sbaglieranno, certo, ma lo faranno facendo del proprio meglio, stando “dalla parte del bambino”. Non è poca cosa.


Ecco, questi sono alcuni tra i moltissimi spunti di riflessione che il Museo propone. Il concetto di gioco appartiene a tutti gli esseri viventi. Cambiano magari le note evocate ( gioia, nostalgia, privazione…) ma nessuno vi sfugge; perché non è solo la storia di Re, esploratori, inventori o grandi artisti: è la NOSTRA storia.


E anche la nostra storia merita un Museo.
Questo!

ALESSANDRO FRANZINI